domenica 29 ottobre 2017

Opera aperta!

E’ una domanda un sorriso? O è la risposta?

Il sorriso è il mezzo scelto per ogni ambiguità. Le donne se non sorridono, in compenso ridono. Ma il riso è rumoroso, diretto, esplicito, quasi brutale, laddove il sorriso è silenzioso, sfumato, ambiguo, indefinibile, profondo, misterioso e quindi stuzzicante, quanto l'altro è dichiarato, sguaiato, superficiale e pertanto poco interessante. 

Al Louvre "c'è una graziosa, gli occhi grandi color di foglia, se di amarla ti vien la voglia, basta prenderla per la mano e ti sembra di andar lontano, lei ti guarda con un sorriso......non credevi che il paradiso fosse solo li al primo piano". 




E', e resta, un'opera aperta. E' un classico dell'erotismo, e come tale privilegia i preamboli, indugia sulle circostanze, svela e non svela, più che dichiarare allude, lascia allo spettatore, uno spazio piuttosto ampio di fantasia.....e che ognuno lo colmi a suo piacimento.

Mi innamorai di lei perchè la prima volta che la vidi mi sorrise; in seguito mi accorsi che sorrideva a tutti!!!

venerdì 27 ottobre 2017

Il silenzio dell'artista

Le parole si parlano, i silenzi si toccano

L'arte, e l'arte della parola nella fattispecie, non isola mai.
Essa parte da un isolamento, per forza di cose, poi però approda agli altri.
La voce di un artista è la voce di un “isolato” per definizione: ma quella voce poi rappresenta l'umanità intera. Eugenio Montale, in un discorso sulla comunicazione tenuto a Parigi ne '53, afferma che: “anche domani le voci più importanti saranno quelle degli artisti, che faranno sentire, attraverso la loro voce isolata, un'eco del fatale isolamento di ognuno di noi. Solo gli isolati comunicano; gli altri ripetono, fanno eco”.

Entrando in un museo d’arte contemporanea capita spesso di pensare, dire o sentire domande del tipo: ma questa è arte?  Anche per gli addetti ai lavori (critici, galleristi, storici dell'arte) è sempre più complesso riconoscere cosa sia arte e cosa non lo sia: il confine tra le due non è chiaro e distinto.
Negli ultimi decenni gli artisti hanno creato un nuovo e diverso  rapporto con l’osservatore rendendolo partecipe della riuscita dell’opera stessa. Alla categoria di bello viene così sostituita quella di interessante, concetto che aggiunge al precedente una componente intellettuale: un’opera non viene più percepita per la sua bellezza, ma per la sua capacità «di stimolare sia i sensi sia il pensiero».

L’opera d’arte non va più solo guardata, ma comincia a venir letta, come un testo. In questo modo l’osservatore di opere d’arte non è più un semplice spettatore, ma diventa fruitore, assume cioè un ruolo più attivo nella relazione con l’opera d’arte. A volte la sensazione che si prova non nasconde una certa irritazione e ci porta a dire “potevo farlo anch'io, saprei farla quella cosa lì”. Ma basta essere capaci di realizzare ciò che ha fatto un artista per essere artisti a nostra volta e a far si che l'artista diventi un buono a nulla? La sola tecnica o il mestiere contano più delle idee?

Nel 2003, Doris Salcedo, artista colombiana, ad Istambul riempi un vuoto tra due edifici utilizzando vecchie sedie (cosa a dir poco complicata, se teniamo conto della raccolta e della complessità di ammucchiarne cosi tante da colmare l'area lasciata da un fabbricato sparito). Oltre alla difficoltà organizzativa e tecnica, dietro quest'opera ci sono diversi significati, diverse idee. Innanzitutto le diverse sedie ammassate raccontano di tante vite, tutte quelle degli esseri umani che le hanno occupate; raccontano storie, dicono che un palazzo è un posto dove ci si siede per consumare un pasto, dove si può parlare, dove si può studiare, dove semplicemente avviene quella che chiamiamo vita. Inoltre le sedie ammassate rappresentano un ostacolo insormontabile o un ponte, e quindi un possibile dialogo tra culture diverse, tra oriente e occidente, islamismo e cristianesimo, ricchi e poveri.
Ma dove la combinazione di semplici oggetti raggiunge un lirismo fuori dal comune, grande forza espressiva ed impatto emozionale  è nell'opera Plegaria Muda,  installazione della memoria, della vita, del disagio e della dignità.
Doris Salcedo utilizza nel suo lavoro oggetti di uso quotidiano, in questo caso tavoli  imbevuti dell'esistenza  delle storie narrate.
Plegaria Muda è composta da coppie di tavoli di legno sovrapposti, dai quali nascono sottili fili d’erba. Essa suggerisce l'immagine di un luogo di sepoltura collettivo, di un camposanto di uomini vissuti ai margini. Plegaria Muda (preghiera muta) è una orazione per tutte le persone che non hanno voce per parlare della propria esistenza misera e che il mondo tende a dimenticare, è per chi non esiste.
 
Di fronte ad un'opera del genere osereste chiedere se questa è arte? e che sapreste farla anche voi? 
Non è meglio restare in assoluto silenzio?

Plegaria Muda è una poesia, tra le più intense e struggenti della storia dell'arte.
Un tavolo ha i piedi appoggiati al pavimento, l'altro è capovolto con le gambe in aria. Uno strato di terra divide la morte, che è sotto, dalla vita, che però è completamente sconvolta, sottosopra, per il legame venuto a mancare. "L'assenza di essere umani ne evoca la presenza", spiega la Salcedo. Continua: "I tavoli hanno le proporzioni di una bara, questo è un cimitero". "Sulla superficie dei tavoli ribaltati però cresce dell'erba, a significare che la vita torna ovunque".
Poesia eterna, arte contemporanea e perenne. Qui  si va al di la del tempo, i riferimenti saltano, il pensiero è elevatissimo.
Plegaria muda trasforma lo spazio che la circonda in luogo sacro, luogo del silenzio e del raccoglimento.
Qui nulla è dato al caso, tutto è meditato e costruito con accortezza. Shhhh! Silenzio! Si può ascoltare il silenzio e imparare da esso. Ha una qualità e una dimensione tutta sua.  Ci facciamo seri. Questa è la voce di un isolato: ma questa voce poi rappresenta l'umanità intera

Il silenzio è la forma più alta della parola; comprenderlo è la forma più alta dell’essere umano.

lunedì 23 ottobre 2017

Tutto cambia, stando fermi!

Tutta la storia non è che una lunga ripetizione: un secolo plagia l’altro. (Victor Hugo)
Non vi è nulla di male nel ripetere una buona cosa. (Platone)

Warhol, parlando di De Chirico afferma: "Mi piace la sua arte e poi quell'idea di ripetere sempre e sempre gli stessi dipinti. Ha ripetuto le stesse immagini per tutta la vita: credo che l'abbia fatto perché gli andava di farlo e considerava la ripetizione un mezzo per esprimersi. Quello che lui ripeteva regolarmente anno dopo anno, io lo ripeto lo stesso giorno nello stesso dipinto.....Non è la vita stessa una serie di immagini che cambiano col loro stesso ripetersi?” 

Nel 1964, Andy Warhol gira il film Empire costituito da una sola inquadratura  fissa dell'Empire State Building di New York, ripresa da una stanza del 41° piano del Rockefeller Center: viene filmato dalle 8:06. alle ore 2:42, dal 25 al 26 luglio 1964. Il film di otto ore e cinquanta minuti (La velocità di registrazione era di 24 fotogrammi al secondo, ma il film viene proiettato a 16: di conseguenza, sebbene sia stato girato in 6 ore e 36 minuti, il film dura 8 ore e 5 minuti quando viene riprodotto), manca di una narrazione tradizionale o di personaggi. Il passaggio dalla luce del giorno all'oscurità diventa la narrazione del film, mentre il protagonista è l'edificio icona della città di New York City. Warhol ha allungato il tempo di esecuzione, proiettando il film a una velocità di 16 fotogrammi al secondo, più lento della velocità di scatto di 24 fotogrammi al secondo, rendendo così la progressione all'oscurità quasi impercettibile. Secondo Warhol, il punto di questo film è quello di "vedere il tempo scorrere".
Warhol: "Nel mio film volevo dipingere con un mezzo nuovo: il mio scopo è di realizzare una natura morta cinematografica. La luce cambia ma l'Empire State Building resta fermo".
In questo film-quadro non ci sono movimenti di cinepresa, non esiste montaggio. Empire è insopportabile e ossessivo. Tempo che scorre dilatato, storia di un luogo, incantamento, fissazione, estrema lentezza dilatata. Nessun attore, nessuna messa in scena, solo trascorrere del tempo. Dal chiarore del giorno al buio della notte. Un edificio fermo, eppure instabile sotto la luce. A mutare è solo l'atmosfera tremolante che avvolge l'edificio.
L'edificio viene creato nell'atto di filmarlo, e percepiamo sempre più dettagli.

Forse, involontariamente, Warhol ripercorre il lavoro della serie dedicata da Monet alla cattedrale di Rouen. Come Monet, Warhol indugia sul passare del tempo e sui mutamenti della luce. Suggerisce sottili oscillazioni dell'aria e visione nebulose. Come Monet ci fa percepire l'aria del luogo, l'atmosfera che circonda l'edificio. In entrambi gli artisti, l'architettura si smaterializza, le superfici assorbono e rinviano trame di luce.  

Le "Cattedrali di Rouen" segnano davvero il vertice concettuale della luce.
E dunque Monet, nel 1892, affitta una stanza di fronte alla facciata occidentale della cattedrale di Rouen, per dipingerla e ridipingerla lungo tutto il corso del giorno, per catturare l’evoluzione luminosa che investiva quella pietra, quella superficie tutta da svelare. Ne nacquero almeno cinquanta identiche ma distintissime tele, clonate e variegate in ogni singola ora da inaspettati effetti cromatici: corposi, densi o rarefatti, trasparenti, chiari, abbaglianti.
C’è qualcosa di angosciante in questa decisione di Monet/Warhol di ritrarre un edificio. Lavorando in serie, Monet/Warhol non si fermano su ciò che vedono, ma sull’atto di vedere, un processo mentale, che è soggettivo, sempre in mutamento. Vedere la veduta. La grande rivoluzione dell’arte moderna era compiuta: cambiare la visione percettiva in visione cognitiva. 

Il tempo non va misurato in ore o minuti, ma in trasformazioni.

giovedì 19 ottobre 2017

Gli occhiali del papa (una mia ossessione) – Pt. II

                                                     È utile avere un’ossessione: ci distrae.

 Penso che la vita sia un’ossessione irrazionale. (Sean Penn)

Bacon: ”In Velasquez è davvero straordinario il modo in cui ha saputo rivelare con tanta intensità le emozioni più grandi e più  profonde che un uomo possa provare, guardare i suoi dipinti vuol dire indubbiamente guardare qualcosa che riflette molto da vicino le cose cosi come si presentavano allora”.
 
Sia chiaro: non sono tanto interessato al perchè Bacon abbia scelto proprio quel dipinto, bensì, cosa abbia spinto Bacon ad arricchire il volto del papa con degli occhiali, peraltro storti e che gli cadono dal naso.
 Insomma la mia è diventata una sorta di ossessione dell'ossessione di un altro. Che disordine! L'ossessione che degenera nella perversione.
La mia è una curiosità un po insana. E allora parte la mia indagine sui libri d'arte. Nulla. Niente. Nisba. Eppure un motivo ci deve essere.

Per un po non ci penso, ma il caso viene in mio aiuto. Sono dal dentista e sfoglio una rivista buttata li. Non so come è messo il vostro dentista, ma il mio ha delle riviste giurassiche. Su una di esse c'è in copertina una foto di Madre Teresa con Paolo Giovanni. Sono dal dentista e quindi ripenso all'urlo del papa di Bacon con la bocca spalancata e coi denti in vista: fino a qui nulla di strano!. Poi rifletto ee ho un'intuizione.
Bacon rifà il quadro nel 1953, 300 anni dopo Velasquez. Dovendo attualizzare quell'immagine decide di cambiare il volto con quello del papa in carica, e cioè Papa Pio XII. E infatti TUTTO TORNA. Ad urlare, nel dipinto di Bacon, non è Innocenzo X, ma Pio XII che porta degli occhiali tondi..... L'ENIGMA E' SVELATO. 
Bastava fare una semplice indagine approfondita. Come ho fatto a non pensarci prima!!!!!....... Eppure.... eppure manca ancora qualcosa, c'è un dettaglio che mi sfugge. Gli occhiali perché sono storti?
Mi sa che Bacon è più complicato di quanto pensi, nei suoi quadri coesistono una miriade di elementi: devo approfondire.

Alcune fotografie ci ricordano come il suo studio fosse una bolgia, un antro mostruoso e meraviglioso assieme, dove si camminava sui disegni e sui tubetti spremuti, ma cosi significativo per la sua arte, per il suo lavoro, che alla sua morte, con pazienza certosina ne è stata fatta una ricostruzione attenta e meticolosa.
Sono stati ritrovati frammenti di immagini del cinema russo rivoluzionario, di riviste di moda o di pubblicazioni del processo di Norimberga ai generali Nazisti. Alcune in particolare, quelle della Corazzata Potemkin di Ejzenstejn (proprio quello di Fantozzi) che, secondo quanto dichiarato dall'artista stesso, fu una vera e propria chiave di apertura per la sua immaginazione. Nel suo studio aveva delle stampe e delle fotocopie di diversi fotogrammi della balia, che urla disperata dopo che le sfugge la carrozzina dalle mani; viene poi colpita da un proiettile che le distorce i tratti del viso e le incrina gli occhiali.
Quelle immagini divengono il punto di partenza di una condizione esistenziale che Bacon reputa tremenda. Un uomo, il papa, che è prigioniero del suo ruolo, e che emette un urlo spaventoso e silenzioso, che atterrisce proprio perché senza suono, e che esprime la solitudine e la disperazione dell'essere umano nel secondo dopoguerra. Quello del papa è uno sguardo sull'abisso, che ne il prestigio ne il potere della sua posizione riescono a lenire; l'abisso lo fa urlare, gli fa deformare il volto, gli fa assumere le fattezze della vittima di tutte le storie, perché il suo potere è impotente ed egli ha piena consapevolezza di quell'abisso.
L'immagine di Bacon è cosi potente e mantiene tutta la sua forza espressiva che i King Crimson la usano come copertina del loro album d'esordio (In the court of the crimson king), rifatto in chiave fumettistica  e i Pink Floyd ne fanno il manifesti del film The Wall, girato da Alan Parker, manifesto di una generazione e caposaldo della grande musica contemporanea.
Forse gli occhiali servono solo a questo, ad avere una visione più chiara e lucida dei tempi.
Da grande artista, Bacon ha guardato alla storia ed è stato in grado di fare contemporaneità, di  inventare un nuovo sistema espressivo nel mondo della pittura. Egli non ha imitato la storia, ma l'ha compresa, sviscerata fino a rigenerarla in un linguaggio nuovo adatto alla contemporaneità. 

Perchè si indossano un paio di occhiali?
Ma per guardare il mondo in un'ottica differente!!!  

domenica 15 ottobre 2017

L'ossessione di Bacon – Pt. I

Mi nacque un’ossessione. E l’ossessione diventò poesia.
(Alda Merini)

Il potere è conoscenza. E i peccati del passato ogni uomo finisce per ripeterli nel futuro. E' come Dio l'uomo, non cambia mai. Ma avere la conoscenza non basta. Per essere più potenti degli altri bisogna avere la conoscenza per primi. Cardinal Voiello (The Young Pope)

Studiare molto è uno dei cammini che conducono all’originalità; uno è tanto più originale e peculiare quanto più conosce ciò che gli altri hanno fatto.

 

Ho sentito per la prima volta citare Francis Bacon in occasione di un intervista all'avvocato Gianni Agnelli. Il giornalista chiese all'avvocato cosa pensasse della mostra sull'Arte Povera che aveva appena visitata. Risposta: “Che divle, questa non è atte impottante. Francis Bacon è atte impottante”. Ammetto che quella frase mi sconcertò, (non per la pronuncia “aristocratica”) e allo stesso tempo scatenò le mie fantasie.
A quel tempo non ne sapevo nulla, ma ricordo l'episodio poiché l'omonimia con il filosofo inglese aveva attratto la mia attenzione. Di cosa poteva trattarsi? Sicuramente di una pittura eccezionale. Ma chi poteva essere mai questo Francis Bacon, la cui arte eclissava completamente quanto si produceva in quel momento?  Cosa aveva aggiunto al mondo dell'arte, pigmenti sconosciuti, rossi magnifici o azzurri di incomparabile bellezza? Per me la pittura era innanzitutto colore. Non sapevo nulla di Bacon ne dei suoi quadri e per questo rimasi sbalordito dal fatto che fosse considerato tra i più grandi pittori di sempre. Doveva trattarsi di un genio, senza alcun dubbio. Consultai un  manuale d'arte, ma curiosamente le poche immagini riferite a Bacon erano in bianco e nero e ciò che lessi nel testo non mi aiutò per niente: “Bacon si sofferma sullo studio della figura umana, attraverso la rilettura critica di Velasquez e di Rembrandt, e della fotografia. La condizione umana viene mostrata attraverso una pittura apparentemente tradizionale, che descrive una realtà sofferente delimitata da uno spazio chiuso”. Non feci altre ricerche, non ebbi la curiosità di approfondire l'argomento dello sconosciuto Bacon.
Insomma il mistero della grandezza di Bacon perdurò fino a quando, alcuni anni dopo, all'età in cui si è studenti curiosi di tutto e si prova gusto a sfogliare senza una ragione qualsiasi cosa capita sottomano, mi imbattei per caso in un volume usato, una monografia, che riportava in copertina “Studio dal ritratto di papa Innocenzo X di Velasquez" dipinto da Bacon. Comprai il libro; lo lessi. Il ritratto di Innocenzo X, scoprii, era diventata una vera e propria fissazione per Francis Bacon.

L'operazione di rifare un quadro (D'apres) è molto in voga nel mondo dell'arte, in tutti i campi. Cosi un regista rigira un film e fa un remake; un musicista rielabora una melodia...etc.... Si tratta in sostanza di una rielaborazione da parte di un artista dell'opera di un altro artista, cui esplicitamente si rifà riproducendola o imitandola, in tutto o in parte, più o meno esattamente, in base al proprio stile e alle proprie finalità artistiche. Ne risulta un'opera del tutto nuova e diversa da quella imitata con cui condivide l'ispirazione e il soggetto.  Il D'après è, solitamente, un modo con cui un artista rende omaggio ad altri artisti del passato, riconosciuti come propri maestri e fonti di ispirazione. Spesso perché quella opera piace tanto da essere considerata fondamentale per la propria arte, in altri casi invece diventa una vera e propria passione, al punto da considerarla una opera propria fatta da un altro.
Francis Bacon è letteralmente ossessionato dal ritratto di Velasquez, al punto che realizza 45 studi sulla figura di Innocenzo X.
Si racconta che trovatosi a Roma, rifiutò di entrare nella galleria Doria Panphili, temendo il contatto col dipinto di Velasquez.
E' Bacon a dire “ho pensato che fosse uno dei più grandi dipinti dell'arte mondiale, e l'ho usato in modo ossessivo. E ho tentato, con scarso, scarsissimo successo, di farne delle registrazioni: registrazioni distorte. Rimpiango di averlo fatto, perché ritengo che siano molto stupide...perché penso che quel dipinto  fosse qualcosa di assoluto e che non fosse possibile fare niente di più al riguardo”.
Ancora Bacon: “per quanto riguarda i papi, la religione non c'entra assolutamente: sono piuttosto frutto di un ossessione per le riproduzioni fotografiche dell'Innocenzo X di Velasquez...uno dei più grandi ritratti mai realizzati...compero un libro dopo l'altro con dentro la riproduzione di quel dipinto”. 
Un ossessione è un ossessione e come tale va rispettata!
To be continued....

Non vi è nulla di più astratto del reale!

Tutto ciò che c'è c'è già. Allora nei miei pezzi che si fa? Renderò possibile l'impossibile fino a rendere possibile la realtà...