lunedì 23 ottobre 2017

Tutto cambia, stando fermi!

Tutta la storia non è che una lunga ripetizione: un secolo plagia l’altro. (Victor Hugo)
Non vi è nulla di male nel ripetere una buona cosa. (Platone)

Warhol, parlando di De Chirico afferma: "Mi piace la sua arte e poi quell'idea di ripetere sempre e sempre gli stessi dipinti. Ha ripetuto le stesse immagini per tutta la vita: credo che l'abbia fatto perché gli andava di farlo e considerava la ripetizione un mezzo per esprimersi. Quello che lui ripeteva regolarmente anno dopo anno, io lo ripeto lo stesso giorno nello stesso dipinto.....Non è la vita stessa una serie di immagini che cambiano col loro stesso ripetersi?” 

Nel 1964, Andy Warhol gira il film Empire costituito da una sola inquadratura  fissa dell'Empire State Building di New York, ripresa da una stanza del 41° piano del Rockefeller Center: viene filmato dalle 8:06. alle ore 2:42, dal 25 al 26 luglio 1964. Il film di otto ore e cinquanta minuti (La velocità di registrazione era di 24 fotogrammi al secondo, ma il film viene proiettato a 16: di conseguenza, sebbene sia stato girato in 6 ore e 36 minuti, il film dura 8 ore e 5 minuti quando viene riprodotto), manca di una narrazione tradizionale o di personaggi. Il passaggio dalla luce del giorno all'oscurità diventa la narrazione del film, mentre il protagonista è l'edificio icona della città di New York City. Warhol ha allungato il tempo di esecuzione, proiettando il film a una velocità di 16 fotogrammi al secondo, più lento della velocità di scatto di 24 fotogrammi al secondo, rendendo così la progressione all'oscurità quasi impercettibile. Secondo Warhol, il punto di questo film è quello di "vedere il tempo scorrere".
Warhol: "Nel mio film volevo dipingere con un mezzo nuovo: il mio scopo è di realizzare una natura morta cinematografica. La luce cambia ma l'Empire State Building resta fermo".
In questo film-quadro non ci sono movimenti di cinepresa, non esiste montaggio. Empire è insopportabile e ossessivo. Tempo che scorre dilatato, storia di un luogo, incantamento, fissazione, estrema lentezza dilatata. Nessun attore, nessuna messa in scena, solo trascorrere del tempo. Dal chiarore del giorno al buio della notte. Un edificio fermo, eppure instabile sotto la luce. A mutare è solo l'atmosfera tremolante che avvolge l'edificio.
L'edificio viene creato nell'atto di filmarlo, e percepiamo sempre più dettagli.

Forse, involontariamente, Warhol ripercorre il lavoro della serie dedicata da Monet alla cattedrale di Rouen. Come Monet, Warhol indugia sul passare del tempo e sui mutamenti della luce. Suggerisce sottili oscillazioni dell'aria e visione nebulose. Come Monet ci fa percepire l'aria del luogo, l'atmosfera che circonda l'edificio. In entrambi gli artisti, l'architettura si smaterializza, le superfici assorbono e rinviano trame di luce.  

Le "Cattedrali di Rouen" segnano davvero il vertice concettuale della luce.
E dunque Monet, nel 1892, affitta una stanza di fronte alla facciata occidentale della cattedrale di Rouen, per dipingerla e ridipingerla lungo tutto il corso del giorno, per catturare l’evoluzione luminosa che investiva quella pietra, quella superficie tutta da svelare. Ne nacquero almeno cinquanta identiche ma distintissime tele, clonate e variegate in ogni singola ora da inaspettati effetti cromatici: corposi, densi o rarefatti, trasparenti, chiari, abbaglianti.
C’è qualcosa di angosciante in questa decisione di Monet/Warhol di ritrarre un edificio. Lavorando in serie, Monet/Warhol non si fermano su ciò che vedono, ma sull’atto di vedere, un processo mentale, che è soggettivo, sempre in mutamento. Vedere la veduta. La grande rivoluzione dell’arte moderna era compiuta: cambiare la visione percettiva in visione cognitiva. 

Il tempo non va misurato in ore o minuti, ma in trasformazioni.

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