Tutta la storia non è che una lunga ripetizione: un secolo plagia l’altro. (Victor Hugo)
Non vi è nulla di male nel ripetere una buona cosa. (Platone)
Warhol, parlando di De
Chirico afferma: "Mi piace la sua arte e poi quell'idea di ripetere sempre
e sempre gli stessi dipinti. Ha ripetuto le stesse immagini per tutta la vita: credo
che l'abbia fatto perché gli andava di farlo e considerava la ripetizione un
mezzo per esprimersi. Quello che lui ripeteva regolarmente anno dopo anno, io
lo ripeto lo stesso giorno nello stesso dipinto.....Non è la vita stessa una
serie di immagini che cambiano col loro stesso ripetersi?”
Nel 1964, Andy
Warhol gira il film Empire costituito da una
sola inquadratura fissa dell'Empire State Building di New York, ripresa
da una stanza del 41° piano del Rockefeller Center: viene filmato dalle 8:06. alle
ore 2:42, dal 25 al 26 luglio 1964. Il film di otto ore e cinquanta minuti (La velocità di registrazione era di 24 fotogrammi al secondo, ma il film
viene proiettato a 16: di conseguenza, sebbene sia stato girato in 6 ore e 36
minuti, il film dura 8 ore e 5 minuti quando viene riprodotto), manca di una
narrazione tradizionale o di personaggi. Il passaggio dalla luce del giorno
all'oscurità diventa la narrazione del film, mentre il protagonista è
l'edificio icona della città di New York City. Warhol ha allungato il tempo di
esecuzione, proiettando il film a una velocità di 16 fotogrammi
al secondo, più lento della velocità di scatto di 24 fotogrammi al
secondo, rendendo così la progressione all'oscurità quasi impercettibile. Secondo
Warhol, il punto di questo film è quello di "vedere il tempo scorrere".
Warhol:
"Nel mio film volevo dipingere con un mezzo nuovo: il mio scopo è di
realizzare una natura morta cinematografica. La luce cambia ma l'Empire State
Building resta fermo".
In questo film-quadro
non ci sono movimenti di cinepresa, non esiste montaggio. Empire è insopportabile
e ossessivo. Tempo che scorre dilatato, storia di un luogo, incantamento, fissazione,
estrema lentezza dilatata. Nessun attore, nessuna messa in scena, solo
trascorrere del tempo. Dal chiarore del giorno al buio della notte. Un edificio
fermo, eppure instabile sotto la luce. A mutare è solo l'atmosfera
tremolante che avvolge l'edificio.
L'edificio
viene creato nell'atto di filmarlo, e percepiamo sempre più dettagli.
Forse,
involontariamente, Warhol ripercorre il lavoro della serie dedicata da Monet
alla cattedrale di Rouen. Come Monet, Warhol indugia sul passare del tempo e sui
mutamenti della luce. Suggerisce sottili oscillazioni dell'aria e visione
nebulose. Come Monet ci fa percepire l'aria del luogo, l'atmosfera che circonda
l'edificio. In entrambi gli artisti, l'architettura si smaterializza, le
superfici assorbono e rinviano trame di luce.
Le "Cattedrali di Rouen" segnano davvero il vertice
concettuale della luce.
E dunque Monet, nel 1892, affitta una stanza di
fronte alla facciata occidentale della cattedrale di Rouen, per dipingerla e ridipingerla lungo tutto il
corso del giorno, per catturare l’evoluzione luminosa che investiva quella pietra,
quella superficie tutta da svelare. Ne nacquero almeno cinquanta identiche ma
distintissime tele, clonate e variegate in ogni singola ora da inaspettati
effetti cromatici: corposi, densi o rarefatti, trasparenti, chiari, abbaglianti.
C’è qualcosa di angosciante in questa decisione di
Monet/Warhol di ritrarre un edificio. Lavorando in serie, Monet/Warhol non si
fermano su ciò che vedono, ma sull’atto di vedere, un processo mentale,
che è soggettivo, sempre in mutamento. Vedere la veduta. La grande rivoluzione
dell’arte moderna era compiuta: cambiare la visione percettiva in visione
cognitiva.
Il tempo non va misurato in ore o minuti, ma in trasformazioni.
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