venerdì 1 dicembre 2017

Da una diversa “Prospettiva” – Pt. II

Non è che ho paura di morire, è che non vorrei esserci quando accadrà. 
 


Il balcone di Manet ha un taglio fotografico. La foto rappresenta la morte, cosi come la pittura rappresenta la vita. L'immagine è documento e memoria dell'aspetto reale di persone, luoghi e cose; a questo si contrappone l'attimo decisivo, ossia il momento in cui la realtà si compone, senza una preparazione studiata, e l'artista ha l'intuizione di cogliere quel momento e di renderlo......da fugace eterno! Insomma si tratta di catturare quella realtà che non ha percezione della nostra presenza, che noi catturiamo con un occhio segreto. Questa condizione particolare del ritratto, che coincide con l'immobilità, la staticità, finisce suo malgrado per riprodurre la morte. La poeticità del momento viene salvata dalla pittura, ma non dalla sua immagine. Spiego meglio.
Una immagine di qualcosa o qualcuno, ferma una condizione che irrimediabilmente è stata distrutta, cancellata dal tempo. La riproduzione di quella data immagine blocca in qualche modo quel  tempo, lo conserva e contemporaneamente lascia un attestato di morte. Un'immagine ha questa condizione insolita, e cioè di far prevalere il documento e la memoria sulla condizione reale. L'immagine racconta di una persona che non c'è più, dell'aspetto di un luogo in un certo momento, comunque passato....in sostanza non c'è nulla di più macabro, visto il  suo richiamo e la sua convivenza con la morte. L'immagine è la principale nemica del passare del tempo. Il ritratto in particolare ha paura del tempo e pertanto lo blocca, lo esorcizza alla sua maniera.
Più si producono immagini, più aumenta l'archivio del mondo cosi come era; quindi compito di una riproduzione è rappresentare quello che col  tempo rischia di non esserci più. 
 Noi abbiamo vietato la parola morte. Interdetta. Proibita. Nessuno “osa pronunciare il suo nome”. Tanto che non azzardiamo nominarla nemmeno nei luoghi, nelle sedi, nelle occasioni in cui non ci si può esimere dal parlarne, basta leggere i necrologi dei quotidiani: "la scomparsa, la perdita, la dipartita, si è spento, ci ha lasciato, è mancato all’affetto dei suoi cari, i parenti piangono", fino ai trapezismi di “è tornato alla pace del Signore”, “è terminata la giornata terrena” e così via, la parola morte ad indicare ciò che veramente è successo, non c’è mai. I contemporanei esigono che si muoia nell’ignoranza della morte.
Tutto questo è stato compreso magistralmente, alcuni decenni dopo, da un pittore non impressionista, bensi surrealista (il surrealismo è l'opposto dell'impressionismo): Renè magritte.
I personaggi del dipinto di Manet sono stati sostituiti da bare; per il resto la scena rimane immutata. Al posto di persone vive, sono stati collocati oggetti morti, che possiedono le stesse sembianze degli uomini.
L’immagine risultante non è lugubre, anzi: tipica di questo dipinto è un insolita vitalità, una fresca ironia molto lontana dall’humour nero. La vita è stata trasformata nella morte, ma tutto è avvenuto talmente in fretta che non si è dato alle figure il tempo di conquistare una posizione distesa.
Ricordando il quadro originale, col gentiluomo impettito e le due eleganti signore in bianco, vedendo le bare non si può non cogliere il ridicolo di questi curiosi bozzoli di legno, che della persona che custodiscono conservano posizione e proporzione.
L’operazione è semplice ma geniale: sostituire, all’uomo in nero e alle due giovani donne vestite di bianco, i segni della loro scomparsa, cioè delle bare il cui disegno si conforma alla posizione corporea (seduta o in piedi).

Il titolo del dipinto “Prospettiva, il balcone di Manet” fa riferimento al duplice significato del termine: la prospettiva come espediente rappresentativo e la prospettiva come durata nel tempo, con la morte come sbocco inevitabile.
 Operazione terrificante? Assolutamente e decisamente no.

 D'altronde a morire sono sempre gli altri!

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