martedì 26 dicembre 2017

I buoni artisti copiano, i grandi rubano



“Non è un pittore, bensi una forza della natura” 
Federico Zeri

La notte del 25 Ottobre 1881, venne alla luce, senza uno strillo ne un segno di vita. I parenti persero ogni speranza, tranne uno zio che non volle accettare. Col sigaro in bocca, si chinò sul piccolo e gli soffio del fumo dritto nel naso. Il primogenito della famiglia Ruiz salutò il mondo con un urlo di rabbia.

Gli diedero il nome di Pablo Diego Josè Francisco de Paula Juan Nepomuceno Maria de los Remedios Cipriano Santìsima Trinidad Ruiz y Picasso.

La maggioranza di questi nomi appaiono solo nel registro del comune di Malaga. Lui sarà conosciuto da tutti come Pablo Picasso.

Prima che con le parole, il piccolo imparò ad esternare i suoi desideri attraverso il disegno. La sua prima parola fu “piz”, ossia lapiz, matita. Era capace di disegnare ogni cosa fin da piccolissimo, il cane del vicino, il gallo della zia, un asino partendo dalla coda o dalle orecchie. Comunque cominciasse, la magia si compiva sempre e comparivano le figure che gli avevano chiesto.  Il padre, pittore, si accorse subito del talento del figlio e lo stesso Picasso ricorderà: “Mi passò i suoi colori e i suoi pennelli, e per tutta la vita non dipinse più”.

Se è vero che “nomen omen”, e che in ogni nome c’è un destino, egli, al pari dei suoi numerosi nomi, finisce per avere sorti, interessi e personalità talmente varie e sfaccettati da riuscire ad esprimersi in qualsivoglia stile e maniera. Colto, curioso, si innamora di tutto: lo stile dei maestri che ama diventa il suo; diventa da subito il più dotato dei manieristi. Picasso, all’inizio del ‘900, poco più che ventenne dipinge quadri come I giocolieri, I due saltimbanchi o L’acrobata e il giovane equilibrista, e inaugura il secolo con un’arte rifatta sull’arte. La sua non è mai una visione diretta della realtà, ma un’arte mediata dall’estetismo, che si spinge verso l’immobilità della maniera. Egli non dice e non dirà niente riguardo se stesso e la sua visione del mondo, ma dirà tanto sull’arte e sul suo rapporto con l’arte. La sua adesione alle cose del mondo è mediata dall’arte.
Guardiamo i quadri del periodo blu, nei quali egli descrive la fame, la miseria, in un periodo in cui egli era affamato e povero: le sue figure sono ritratte in atteggiamenti eloquenti, sono personaggi oppressi, disperati, sono dei vinti; le spalle piegate, la testa chinata, tutta una umanità affranta. Sembra quasi che Picasso dipinga con cristiana pietà. Ma non è cosi (Picasso non ha pietà)! Egli è lontano da ogni partecipazione sentimentale: dipinge la miseria, ma per mostrare il lato estetico dell'indigenza.  E allora gli atteggiamenti delle figure dolenti sono sempre studiati, eleganti, hanno stile.
 
 

Egli è un genio vorace e versatile, che dopo aver bruciato in poco tempo la carriera dell’artista tradizionale legato alla rappresentazione della realtà (disse: a dodici anni dipingevo come Raffaello), oltrepassa il limite e sposta la sua opera dalla vita alla cultura. Cosi facendo egli si è fatto creatore di uno smisurato catalogo, di un repertorio di maniera frutto di sottrazione e saccheggio. “Io non cerco, trovo” e “c'è un solo modo di guardare le cose, fino a quando arriva qualcuno e ci mostra come guardarle con occhi diversi”. E ancora "Non riesco a capire l'importanza data alla parola ricerca nella pittura moderna. A mio avviso cercare non significa niente in pittura. Quello che conta è trovare".
 In altri termini egli sostituisce al mondo, l'esposizione del mondo, il museo. Col museo spunta l’idea della relatività degli stili e della pluralità delle forme. Picasso, il più grande ladro di forme, le riduce in schemi e chiude per sempre l’età degli artisti che avevano qualcosa da dire; con Picasso inizia l’era degli artisti che hanno qualcosa da dare. Giochi di parole a parte, per Picasso sarà naturale, nella sua lunga vita, trarre ispirazione da Touluse Lautrec, El Greco, Edgar Degas, Paul Cezanne, Francisco Goya o Diego Velazquez, dall’arte greca, dall’arte africana, da Henry Matisse o da altri pittori contemporanei. Gli altri artisti esistono non per quello che hanno voluto dire, ma per le forme che hanno creato e che utilizzerà ogni volta che ne avrà bisogno, come stimoli o impulso alla sua creatività. La sua non è debolezza ma al contrario eccitazione scatenata del suo slancio creativo, attraverso l’arte di tutti i tempi. Picasso: " Credo di sapere cosa vuol dire essere Dio. Dio in realtà non è che un altro artista. Egli ha inventato la giraffa, l'elefante e la formica. Non ha un vero stile: non fa altro che provare cose diverse". 

Ci sono pittori che trasformano il sole in una macchia gialla, e poi c'è Picasso che partendo dalla loro intelligenza e dalla loro arte, trasforma la macchia gialla nel sole!  

D'altronde, "inventare è semplice, copiare è difficile ........ e rubare è un'arte!"

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Non vi è nulla di più astratto del reale!

Tutto ciò che c'è c'è già. Allora nei miei pezzi che si fa? Renderò possibile l'impossibile fino a rendere possibile la realtà...